Un Festival Rossini nel Festival Mozart 2007

Quando il Festival Mozart fu trasferito da Madrid a La Coruña, nacque la felice intuizione di accostare alla produzione, non facile e non illimitata, del sommo salisburghese quella di un altro compositore operistico anomalo e originale quanto lui, ma più accessibile nel linguaggio e popolare nell’immagine: Gioachino Rossini.

Il melodramma rossiniano e quello mozartiano sono diversissimi fra loro, ma, paradossalmente, condividono il punto di partenza e di arrivo, e sono complementari nel conseguire il traguardo di un messaggio di straordinaria e inquietante ricchezza. Li accomuna la pratica di un teatro visionario e ambizioso, dove il ricorso a leggi aristoteliche inapplicabili (unità di tempo, di luogo, d’azione) obbliga a raccontare la storia rappresentata in modo non realistico, e dove una ideologia non conformista dagli esiti eversivi cattura la sensibilità irrequieta dell’uomo moderno. Entrambi poi derivano la forza e il ritmo narrativo dei loro drammi dall’esperienza dell’opera buffa condotta all’iperbole, dalla quale hanno tratto anche forme e strutture. Entrambi adottano un linguaggio vocale fortemente radicato nel belcantismo, disceso dalla pratica barocca sei- settecentesca e condotto a vertiginoso sviluppo di acrobatismo tecnico e espressivo.

Nello spazio temporale di una folle journée Mozart trasporta i personaggi delle Nozze di Figaro da una scialba quotidianità al sogno liberatorio di una trasgressione felice (la Contessa d’Almaviva, secondo Beaumarchais, arriva a concepire un figlio con Cherubino!), per ricondurli poi all’ordine e alla pace di una malinconica normalità. Ancora in una sola, improbabile giornata, i protagonisti del Così fan tutte partono per una finta guerra, tornano travestiti a corteggiare, a ruoli invertiti, le proprie fidanzate, infine ritornano all’identità d’origine per risolvere con filosofica saggezza l’eterno dilemma delle corna. In un’altra interminabile giornata Don Giovanni tenta di stuprare Donna Anna, ne uccide il padre, seduce Zerlina e la fantesca di Donna Elvira, invita Donna Anna e relativo promesso sposo a una festa sacrilega, bastona Masetto, oltraggia l’infelice Elvira dandola in pasto a Leporello travestito, profana la tomba del defunto Commendatore, lo invita spavaldamente a cena e viene da costui trascinato all’inferno rifiutandosi con eroico orgoglio a chiedere perdono.

Le giornate rossiniane non sono meno dense di eventi: dall’alba al tramonto Semiramide convoca Arsace, liquida Assur, complice nel regicidio, al suo posto nomina Arsace marito e successore al trono, scopre in Arsace il figlio creduto morto e viene da costui prima teneramente abbracciata poi inconsciamente uccisa per punizione divina. Anche l’esule Tancredi giunge al mattino in Siracusa, incontra l’amata Amenaide, scambia per tradimento la reticenza a corrispondere al suo amore, crede all’accusa di una sua collusione col nemico invasore, la respinge sordo a ogni supplica, nello stesso tempo affrontando vittoriosamente il medievale Giudizio di Dio per salvarne vita e onore, scende in campo in difesa della patria e, ferito a morte, si convince finalmente dell’innocenza della promessa sposa e spira rappacificato (oppure, nella versione convenzionale del Finale, torna vincitore a impalmare la riabilitata Amenaide).

Anche nel dramma giocoso gli accadimenti procedono rapidi: il Conte Ory arriva di buon mattino a caccia di donzelle finte ingenue, intuisce una possibile avventura con la Contessa di Formentier, escogita un travestimento per introdursi coi suoi accoliti nel di lei castello, complice un furioso temporale e un monacale travestimento avvicina la Contessa e relativo seguito femminile, la sorprende a letto e ne mette a dura prova la virtù, salvata inopinatamente, prima della fatidica mezzanotte, dal ritorno dei mariti, reduci da una santa crociata.

Mozart e Rossini condividono una visione morale assolutamente laica e agnostica: nei confronti dei loro personaggi essi non prendono mai partito con giudizi d’ordine etico; nei loro melodrammi non ci sono buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, né si comprende facilmente da che parte stia il compositore. Don Giovanni è un ribaldo di notevole levatura, Almaviva un libertino impenitente, Fiordiligi e Dorabella non sono fiori d’innocenza, ma fra gli ascoltatori questi malandrini raccolgono più simpatie della trepida Elvira, dell’ambigua Susanna, dei creduli promessi sposi, Guglielmo e Ferrando; così come non si arriva allo sdegno per la mostruosità di Semiramide, né al fastidio per la poca fede di Tancredi, o all’insofferenza per il vacuo fanfaronismo di Ory.

A questa coincidenza di teatro non convenzionale e sostanzialmente amorale, assumibile a manifesto di aperta contestazione nei confronti della società vigente e delle leggi codificate e condivise che la reggono, Mozart e Rossini giungono per itinerari artistici diversi, impiegando codici espressivi totalmente differenti.

Dentro una cornice animata da azioni condotte con ritmi e cadenze calcolatissimi, i personaggi del teatro mozartiano si muovono con gesti di credibile realismo, sostanziati da un vocabolario musicale, melodico e armonico, di pregnante ricchezza espressiva. Don Giovanni si rivolge a Zerlina con espressioni così dolci e lusinghiere che è difficile dubitare della sua onestà; Cherubino è così indifeso nei suoi turbamenti che nessun amante potrebbe mimare la passione con maggior sincerità; l’ingannevole corteggiamento di Fiordiligi e Dorabella da parte di Guglielmo e Ferrando è accompagnato da una musica di tal grazia innocente che nessun angelo del paradiso potrebbe supporlo falso.

I personaggi rossiniani rispondono con maggior coerenza a un teatro dichiaratamente antirealista: il loro comportamento, sempre ironico e ambiguo, sfugge alla logica della ragione e trova nelle accensioni di una gioiosa e ordinata follia la radice di un gioco intelligente e intrigante, limitando le emozioni del cuore e dei sensi. Un canto di virtuosismo acrobatico, ma anche elegante e aristocratico, gli proporziona immagini tanto più risplendenti e cautive quando più alta la capacità dell’interprete di trasformare le anonime figure strumentali del belcanto in emozioni espressive. Dopo ore di spasmodica tensione emotiva Arsace compie il matricidio impostogli dagli dei in pochi precipitosi secondi; Amenaide e Tancredi hanno più di un’occasione per chiarire l’equivoco che li ha divisi, ma lo strazio di un amore impossibile non consente di infrangere il muro dell’incomunicabilità; Ory, terrore delle femmine, seduttore emblematico, non riesce a condurre a buon fine conquiste amorose che il giovane paggio rivale gli sottrae senza sforzo.

Poiché il Festival coruñense di quest’anno torna a dare largo spazio al teatro mozartiano, è parso opportuno cogliere l’occasione per riproporre il parallelismo simbolico col melodramma rossiniano, felicemente sperimentato nelle scorse edizioni. La presenza di prestigiosi interpreti di questo repertorio, quali Antonacci, Ciofi, Tamar, Barcellona, Bros, Tarver, Pertusi, ha consentito di impaginare un breve, denso Festival Rossini allineando partiture altamente significative della sua vasta, ma ancora poco esplorata produzione. Accanto al toccante Stabat Mater e a una larga selezione di Semiramide, culmine testamentario di un lascito artistico fra i più alti e singolari, viene presentata per la prima volta in Spagna l’Adelaide di Borgogna, opera a torto considerata minore da studiosi influenzati dalle cronache giornalistiche di critici incapaci di cogliere la novità di un teatro melodrammatico giudicato col metro di una tradizione settecentesca che proprio il genio profetico di Rossini aveva definitivamente cancellato.

Della Semiramide verranno eseguiti tutti i duetti e tutte le arie di Semiramide, Arsace e Assur, più il terzetto del Finale Secondo. Verranno dunque omessi soltanto i grandi pezzi concertanti (Introduzione, Finale Primo, Coro dei Magi con Oroe, parte del Finale Secondo), le due Arie di Idreno e gran parte dei Recitativi. Arie e duetti si succederanno nell’ordine originale, assicurando la corretta scansione emotiva, che si sviluppa in un continuo crescendo espressivo sino alla catarsi conclusiva. Si tratta di due ore di musica, circa la metà dell’intera opera, che partono dall’arrivo in Babilonia di Arsace, giovane eroe vittorioso, convocato dal Gran Sacerdote, Oroe, e dalla regina Semiramide per opposte ragioni. Oroe, ansioso di restaurare in Babilonia giustizia e legalità, ritiene giunto il momento di rivelargli la vera identità : é figlio del re Nino, assassinato dalla sua stessa madre, Semiramide, e dal di lei amante Assur. Costui aveva disposto di uccidere anche lui, per eliminare il legittimo successore al trono cui aspirava, ma un fedele servitore lo aveva salvato e segretamente allevato. Semiramide lo voleva a corte perché, innamoratasi di quell’eroe sconosciuto, intendeva farlo sposo e innalzarlo al trono al suo fianco. L’ignaro Arsace risponde sollecito alla doppia convocazione perché in Babilonia risiede Azema, la fanciulla di cui si è innamorato, ricambiato, nel momento in cui le ha salvato la vita sottraendola a un rapitore. La sua aria di sortita, “Eccomi alfin in Babilonia”, è appunto dedicata a rievocare il momento della felicità. Il successivo duetto con Assur, “Bella imago degli Dei”, consacra subito una mortale inimicizia, anche perché Assur vuol contendergli la mano di Azema. Semiramide, nella celebra aria di sortita, “Bel raggio lusinghier”, esprime il languore di una spasmodica attesa d’amore: è in questa atmosfera che Arsace la sorprende quando va a proclamarle fedeltà e a chiedere un aiuto per coronare il suo sogno d’amore. Semiramide, accecata dal desiderio, crede di essere l’oggetto della richiesta, e nel duetto che segue la sua cavatina, “Serbami ognor sí fido il cor”, rivela apertamente i sentimenti che la indurranno, nel successivo Finale Primo, a proclamare Arsace sposo e re, creando uno scompiglio generale.

Nella secondo atto, i due ex amanti e complici, Semiramide e Assur, ora carichi d’odio reciproco, si gettano in faccia orride manciate di fango, ma nella parte centrale del loro duetto, “Se la vita ancor t’è cara”, sembrano unirsi in un pianto disperato, alla ricerca di un impossibile conforto. Nell’aria successiva, “In sì barbara sciagura”, Arsace reagisce sconcertato alla rivelazione della sua vera identità, del crimine compiuto da Semiramide e del compito atroce che lo attende per ordine divino: vendicare l’uccisione del padre. Segue il duetto con Semiramide, “Ebben…a te: ferisci”, culmine espressivo dell’opera, dove gli opposti sentimenti di amore e odio si intrecciano inestricabilmente generando insieme orrore e tenerezza. La grande Scena di Assur, “Il dí già cade”, è un potente affresco che anticipa i deliri di Nabucco e Macbeth e annuncia la tragica conclusione di un’opera senza pietà: Semiramide e Assur cadranno per mano di un Arsace accecato dalle tenebre e dall’enormità del crimine; il popolo lo riscuote acclamandolo re.

   Alberto Zedda

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