Rapporto fra direttore d’orchestra, regista, cantanti

Perduto in gran parte il contatto col linguaggio contemporaneo, il melodramma ha recepito una prospettiva storica che comporta riflessioni riguardanti questioni di stile, di filologia, di linguistica, e il direttore d’orchestra e i cantanti che affrontano oggi l’opera lirica devono affrontare responsabilità nuove e diverse. Dovranno preoccuparsi innanzi tutto di impostare lo studio partendo da un testo che illumini quanto possibile sulle volontà dell’autore.

Le edizioni critiche, fornite di apparati critici, dove si esaminano gli interrogativi posti dagli autografi e si documentano le risposte dei curatori, rispondono egregiamente a questa esigenza. Purtroppo mentre nel repertorio sinfonico e cameristico le edizioni critiche sono numerose e diffuse, in quello lirico rappresentano ancora l’eccezione. In mancanza di esse il concertatore dovrà collazionare lezioni diverse, consultare i contributi dei musicologi, risalire direttamente all’autografo ogni volta che sia possibile: troppe, documentate denunce sono venute a mettere in crisi la credibilità di edizioni anche celebri.

A studio concluso il direttore avrà maturato precisi orientamenti che provvederà a confrontare con quell’insieme di regole non scritte, di insegnamenti tramandati, di suggerimenti nati sul filo dell’esperienza definite tradizioni. Gli apporti della tradizione, anche se consegnati da maestri illustri, non devono venire accolti acriticamente nel nome di una riverenza che troppe volte nasconde pigrizia e insufficienze culturali: vanno verificati, uno per uno, alla luce di un’attualità costantemente rinnovantesi secondo le leggi del gusto e del costume, affinché l’opera lirica continui a parlare un linguaggio contemporaneo e a svolgere una funzione culturale cogente.

Per il cantante la fase di studio non può essere dissimile anche se non gli toccano pari responsabilità di ordine filologico né scelte stilistiche d’ordine generale: l’assunzione di un testo fedele come punto di partenza di un’autonoma maturazione interpretativa e l’esame critico delle tradizioni come condizione di rinnovamento e di superamento si impongono con eguale urgenza.

Nella fase di studio è un grave errore abbandonarsi alle suggestioni di modelli esecutivi preesistenti, fonografici e non, che verrebbero fatalmente a condizionare l’autonomia di giudizio, a ridurre la personalità di concezione. La lezione altrui, soprattutto quella dei grandi interpreti, non è imitabile. I grandi interpreti sono tali perché hanno saputo sottrarre l’articolazione della frase cantata alla rigidità del segno che la fissa sul pentagramma. Proprio perché fatta di sottili sfumature ritmiche e dinamiche, questa libertà non è traducibile in dettagli definiti e riproducibili. Ogni interprete dovrà conquistarsi un suo fraseggio, un suo discorso che saranno tanto più interessanti e originali quanto maggiore la sua personalità e la sua capacità di approfondire. Le leggi di Pavlov sui riflessi condizionati valgono anche per gli artisti: ascoltando ripetutamente una determinata esecuzione, se ne assumono forzatamente le caratteristiche, arrivando a considerarla il modello ottimale, cosí reprimendo quei tratti di originalità che un accostamento privo di intermediari avrebbe consentito. Si deve poi ricordare che la lezione dei grandi è difficilmente analizzabile: la naturalezza del fluire discorsivo, la perfetta logica della sua costruzione, l’apparente facilità che rende ogni passaggio limpido e comprensibile sono elementi difficili da definire.È assai più facile apprendere da esecuzioni cattive o mediocri, dove i difetti si avvertono prontamente, mettendo in guardia su ció che non si deve fare.

In sala di prove direttore e cantanti confrontano le proprie scelte e iniziano quel lavoro di cooperazione che ha il fine di conseguire allo spettacolo una cifra unitaria e stilisticamente definita. Dopo aver studiato le caratteristiche vocali, la personalità, la capacità di adattamento e di ricezione, le qualità sceniche dei collaboratori, il direttore provvederà ad adeguare le proprie visioni interpretative alle concrete possibilità: stacchi di tempo, ricerca di luci e ombre, coloriti dinamici dovranno perdere l’astrazione di un ideale pensato a tavolino per adattarsi a situazioni di fatto in modo da riuscire a ottenere il massimo dei risultati. Imporre a qualunque costo schemi prefissati, anche validissimi, giovandosi di quel potere autoritario che proviene al direttore d’orchestra dall’essere il solo responsabile dello spettacolo, può diventare controproducente.

Il cantante deve convincersi a sua volta che la musica non conosce regole assolute; tempi, valori agogici, coloriti dinamici, fraseggi possono venir modificati per reagire a situazioni concrete: una sala grande o piccola, un’orchestra più o meno numerosa e sonora, un collega agile o impacciato, uno stato di grazia o precario. Deve quindi essere in grado di modellare il suo personaggio in un ragionevole arco di prospettive differenti e non tanto per adattarlo alla volontà di un direttore o di un regista che sapranno sempre rispettare le sue esigenze fondamentali, quanto per reagire a un rapporto dialettico con colleghi che sono ogni volta diversi e comportano sfumature psicologiche imprevedibili. Questo comune sforzo di amalgama e di reciproco adattamento è il solo in grado di condurre a un denominatore comune che assicuri allo spettacolo il traguardo dell’omogeneità e della coerenza.

Ricavo dall’esperienza un elenco di difetti riscontrati in cantanti avviati alla professione:

1) lo studio della musica (pratica strumentale, teoria e solfeggio, armonia e contrappunto, attività in gruppi vocali o strumentali, musica da camera) viene condotto in misura insufficiente, cosicché la precisione ritmica del canto tradisce un pressapochismo inaccettabile; il fraseggio risulta rigido e incapace di piegarsi alle sfumature del vocabolo drammaturgico; la scarsa conoscenza della strumentazione in partitura non consente di seguire il melos del discorso musicale e obbliga il cantante a regolare la sua entrata sulla battuta del collega, il che lo pone alla mercé dell’errore altrui; sorgono difficoltà quando un direttore si discosta dalla battuta tradizionale o più semplice per cercare, attraverso un minor numero suddivisioni, un fraseggio di più ampio respiro e di più libera elasticità; si guarda con diffidenza al repertorio contemporaneo, quello che con maggiori probabilità potrebbe offrire occasioni di lavoro a inizio carriera; non si è in grado di affrontare con la sicurezza necessaria recite non precedute da prove d’orchestra come capita di frequente anche in grandi teatri, specie all’estero, dove compagnie sempre rinnovantesi riprendono per anni un medesimo allestimento; difficilmente si arriva a maturare un’esecuzione convinta nei pochi giorni di prova consentiti da una programmazione condizionata dagli alti costi delle masse e dei servizi. I pochi anni di studio richiesti a un allievo di canto per diplomarsi non possono assolutamente bastare a provvedere un corredo sufficiente a intraprendere la carriera, così come quelli richiesti allo strumentista (e sono già di più, come se cantare fosse più facile che suonare uno strumento!) non bastano a farne un pianista o un violinista. Il protagonista di un’opera lirica non ha meno responsabilità né minor compiti del grande strumentista, al cui modello di professionalità dovrebbe rifarsi.

2) La tecnica di canto acquisita (cioè la capacità di controllo dell’emissione affinché ogni suono sia conseguente a un ordine preciso partito dal cervello dell’interprete) è sommaria e limitata cosicché non si riescono a rispettare le indicazioni prescritte dal compositore e pretese dal direttore: in particolare è difficile ascoltare la mezza voce, un vero colore di piano, un bel legato morbido e fervoroso. Dinamica prevalente è un mezzo-forte anonimo, interrotto da urla e grida ancor più anonime quando non orripilanti. L’orchestra e il coro non sentendo cantare piano i personaggi protagonisti aumentano a loro volta la sonorità, appiattendo tristemente il risultato; il pubblico si abitua a livelli sempre più frastornanti e dimentica la dolcezza dei toni sommessi, l’eleganza delle frasi sussurrate; gli stessi cantanti arrivano a valutano la voce in termini di potenza prima che di qualità. Capita di sentir affermare che certi piani richiesti dalla partitura sono impossibili a realizzarsi perché segnati su note del registro acuto, o del passaggio. La scusa non è valida: cantar piano certe note è difficile, ma non impossibile. A parte l’assurda patente di incompetenza elargita a grandi compositori, spesso anche concertatori delle loro opere (taluni di essi, come Verdi, attentissimi alle ragioni della voce: paradigmatico il sublimante pp richiesto al si b conclusivo sull’ultima parola di “un trono vicino al sol” nella romanza di Radames, nel primo atto di Aida), la testimonianza di artisti di ieri e di oggi prova come non ci siano limiti per chi abbia saputo forgiarsi una vera tecnica. Lo studio del canto si completa coltivando le discipline collaterali: dalla pratica strumentale all’arte scenica, dalla cura di una dizione perfetta alla conoscenza delle lingue, dalla presa di coscienza almeno sommaria degli interrogativi posti dalla musicologia e dalla filologia applicata, alla storia del pensiero e dell’arte. Molti cantanti ignorano l’enorme carica espressiva generata dalla parola scenica pronunciata con l’energia richiesta dalla situazione drammatica, emozione che si aggiunge a quella prodotta dalla voce, raddoppiandone l’efficacia, spesso anche contribuendo sostanzialmente a risolvere difficoltà tecniche specifiche della vocalità. Troppe volte la parola cantata, anziché acquistare dalla musica nuove significazioni, perde il fremito dell’accento e la forza dell’articolazione e con essi la possibilità di aiutare l’espressività del canto.

È ancora allo scarso approfondimento tecnico che va ascritta la cattiva dizione di troppi cantanti: correggere i suoni aperti, mettere in maschera la voce, raccogliere i suoni e proiettarli nella giusta posizione, farli galleggiare con aerea leggerezza e rimbalzare con naturale eleganza non deve in alcun modo comportare che le vocali debbano somigliarsi tutte, così da rendere incomprensibile il testo o che le consonanti arrivino troppo presto o vengano troppo energicamente scandite e raddoppiate, così da interrompere la continuità di un legato e la tensione fervida di un cantabile. Oggi che il belcanto inteso come piacere edonistico fine a se stesso non basta più, si vuol capire quello che succede sul palcoscenico, seguire l’azione parola per parola e una chiara dizione diventa titolo di merito. Una bella voce oggi non basta a imporsi quando manchino le qualità integrative che solo una rigida disciplina culturale e musicale possono fornire. La limitazione tecnica tocca livelli drammatici, specie nelle voci maschili, quando vengano richieste agilità e fioriture: un trillo appare ostacolo insormontabile, la messa di voce è completamente ignorata, le note smorzate e filate sono inaccessibili, i giochi acrobatici del repertorio belcantistico pongono problemi insolubili. Si è costretti a tagliare, modificare, lasciar correre. L’irresponsabilità di certe scuole di canto a questo riguardo, al di là di un’ignoranza oggi inammissibile, arriva a sfiorare l’incoscienza e la disonestà.

Durante le prove il direttore d’orchestra è costretto a volte a confrontarsi con cantanti che accusano stanchezze atipiche e pretendono di non cantare mai in voce. Chi è provvisto di tecnica preferisce in genere cantare a voce spiegata piuttosto che accennare. Un cantante che accenna accoglie con facilità qualsiasi stacco di tempo e asseconda senza problemi il fluire del discorso impostato dal direttore, ma quando passa a cantare in voce è portato a gonfiare le frasi, a rallentare, a regolare il tempo sulle complicazioni tecniche svelate dal canto spiegato: molte volte si determinano così quelle lamentate differenze fra i tempi provati e stabiliti in sala e quelli effettivamente realizzati in teatro. Non cantando in voce l’artista non si allena a superare le difficoltà della parte né a graduarne la fatica; rinuncia ad articolare un diagramma espressivo secondo una rigorosa e premeditata costruzione; non contribuisce a creare un rapporto proficuo con l’orchestra, che per accompagnarlo adeguatamente deve conoscere e abituarsi al suo canto onde realizzare le nuances espressive richieste, preparare e sviluppare il climax ideale che ne arricchisca il rendimento.

3) Non si dedica sufficiente attenzione ai testi letterari, sicché troppi interpreti affrontano un ruolo senza indagare a fondo i significati delle parole che incontrano: l’analisi superficiale si riflette in caratterizzazioni sommarie e anodine dei personaggi e più in generale in una recitazione carente di intensità. Se smettono di cantare perché la frase musicale passa ad altri, taluni artisti sembrano estraniarsi dal contesto drammatico per rianimarsi soltanto quando la battuta ritorna a loro. Nei concorsi e nelle audizioni dove si cantano pagine pucciniane le arie di Mimì, di Butterfly, di Liù, di Manon hanno tutte lo stesso sapore, la stessa valenza espressiva. Pure quando esista autentica personalità anche solo da una romanza si dovrebbe poter cogliere la profonda differenza che corre fra il personaggio di Mimì e quello, poniamo, di Butterfly o di Manon. Il cantante non dovrebbe mai dimenticare che ogni parola musicata ha un significato da sottolineare, ogni situazione un movente segreto o palese da mettere in evidenza. Nei grandi autori le ragioni della musica non sono mai tali da mortificare quelle del testo, per cui nessun problema tecnico o espressivo, nessuna difficoltà vocale può risolversi prescindendo dal preciso significato della frase musicata. Troppe volte si dimentica che in teatro si raccontano storie e che queste storie diverranno più o meno avvincenti per l’ascoltatore in ragione di come l’attore saprà raccontarle, arricchendole con le immagini e le emozioni che la sua arte interpretativa avrá saputo suggerirgli. Indispensabile per questi traguardi l’intesa col regista responsabile dell’impostazione teatrale dello spettacolo. Il cantante lirico deve essere preparato, anche fisicamente, a rispondere alle esigenze di una recitazione divenuta componente primaria del mestiere di interprete melodrammatico in ragione del protagonismo assunto dalla componente visiva di uno spettacolo destinato alla ripresa televisiva e alla diffusione telematica. Il regista arriva attualmente a contendere al direttore d’orchestra l’ultima parola sull’impostazione dello spettacolo, non sempre con reale vantaggio, e il cantante ha l’obbligo di ubbidirgli e di seguirne le indicazioni, pur conservando il diritto di chiedere rispettosamente spiegazioni e di esporre le ragioni di un eventuale dissenso, specie quando si determino condizioni che rendano difficile una resa vocale ottimale.

Anche i registi possoni incorrere in colpe, la più grave delle quali è quella di non tenere sufficientemente in conto le ragioni della musica. Mentre nel teatro di prosa il regista è libero di stabilire il ritmo di recitazione, il tono della voce, la cadenza di una scansione metrica, nella lirica questi elementi sono regolati dal direttore d’orchestra che li ricava a sua volta da precise indicazioni della partitura. Il dialogo nella prosa non è tenuto a rispettare le pause fra una frase e l’altra che nell’opera servono a dar spazio agli interventi strumentali o sono richiesti dall’andamento musicale vero e proprio. La lettura del libretto non accompagnata dalla sua realizzazione musicale non traduce affatto la realtà della partitura, di cui tace ritmi, dinamiche e i condizionamenti emozionali generati dalle scelte melodiche. Il regista lirico dovrebbe preoccuparsi assai più di quando i suoi artisti tacciono che non di quando cantano, aiutandoli a riempire e a rendere credibili i silenzi con controscene che tengano conto di un procedere musicale ricco di tensioni emotive da rispettare e valorizzare. Troppe volte la regia lirica persegue una linea stilistica anche apprezzabile e coerente ma sostanzialmente aliena a quella della musica. L’accordo preventivo fra direttore d’orchestra, regista e scenografo è assolutamente indispensabile per ricercare e definire quell’indirizzo comune senza il quale è problematico raggiungere un’unità stilistica. Stupisce come registi anche illustri non sentano il bisogno di sintonizzare le loro concezioni con quelle dei direttori d’orchestra illudendosi di poter risolvere al di fuori della musica e qualche volta contro di essa i problemi dello spettacolo. Il regista che vuole superare il modesto compito di far muovere al meglio personaggi e comparse per arrivare ad imprimere all’intero spettacolo il suggello della propria creatività deve anche conoscere i limiti tecnici e contrattuali che condizionano le prestazioni dei suoi collaboratori, dai macchinisti agli illuminatori, dagli strumentisti ai cantanti, dai direttori d’orchestra ai coristi, agli strumentisti, e tenerne conto. L’accostamento all’universo musicale non puó limitarsi a qualche ascolto occasionale dell’opera da mettere in scena.

4) Non è abbastanza avvertita l’urgenza di un aggiornamento culturale esteso a campi al di fuori di quelli strettamente collegati alla musica. Senza tale curiosità non è possibile percepire il continuo rinnovarsi di valori interpretativi messi in discussione da ogni nuova generazione e quindi in perenne trasformazione. I critici verificano ogni giorno le tendenze esecutive in atto esaminandole alla lente dell’attualità; i musicologi indagano i motivi di ingiustificati oblii e propongono recuperi e prassi adeguate; i vocalisti approntano gli strumenti tecnici per fronteggiare le esigenze che quei recuperi comportano; i compositori sfidano l’incomprensione per esplorare linguaggi che aprano al futuro; gli organizzatori di festival e spettacoli studiano formule che favoriscano la comunicazione; la bibliografia musicale moltiplica un promettente fiorire di pubblicazioni. Di tutto questo il cantante resta in genere ignaro come se la cosa non lo riguardasse: non sa quanto aiuto prezioso potrebbe ricavare da quei dibattiti, quante idee stimolanti, quanti suggerimenti preziosi per risolvere i suoi problemi. Perché anche il canto fa parte delle attività dello spirito e come tale vive di impulsi e di riflessioni meditate. Sarà una piacevole sorpresa per molti di loro scoprire quante difficoltà, anche tecniche e materiali, si possono vincere con l’intelligenza e la cultura.

Alberto Zedda

© Zedda-Vázquez