L’Accademia Rossiniana di Pesaro

Quest’anno l’Accademia Rossiniana di Pesaro compie il venticinquesimo anno di vita e il Rossini Opera Festival celebra l’anniversario con una pubblicazione che rievoca, nelle pagine introduttive di Gianfranco Mariotti, Sovrintendente del Rossini Opera Festival , e Alberto Zedda, Direttore Artistico del ROF e Direttore dell’Accademia, la storia della sua creazione e ne riepiloga l’attività in statistiche accompagnate da una florida documentazione fotografica.

Conoscere l’attività di questa Accademia e la filosofia che la orienta è utile per capire lo spirito che anima il Rossini Opera Festival e spiegare la ragione del suo consolidato successo, perché l’Accademia Rossiniana è il think tank dove si elaborano dati e concetti emersi da una ricerca teorica in continua evoluzione; dove si rimeditano le esperienze pratiche maturate negli allestimenti operistici pesaresi; dove si sperimentano e si verificano i nuovi orientamenti sorti da quelle riflessioni.

L’Accademia assolve per il ROF la funzione che l’Ufficio Studi, Ricerca e Sperimentazione adempie in una grande industria produttrice di software: centro di apprendimento e insieme laboratorio di ricerca, dove si lavora per aggiornare costantemente il codice idoneo a decrittare il messaggio rossiniano, tra i più complessi e sfuggenti proposti da un genio anche a ragione della secolare interruzione di una tradizione esecutiva, dovuta alla sparizione delle sue opere dai repertori teatrali, adeguandolo alla sensibilità dello spettatore contemporaneo.

Scrive Mariotti … “Abbiamo deciso che toccasse a noi contribuire a formare un artista nuovo, tecnicamente attrezzato ma diversamente orientato sul piano culturale e stilistico, disposto a mettere sullo stesso piano il proprio personale successo e la riuscita complessiva dello spettacolo.” … “L’Accademia non è una scuola di canto, ma un seminario di studio dove si apprende la mentalità, la cultura, lo stile del belcantismo: un insieme di edonismo ed espressività, virtuosismo e misura, spavalderia ed equilibrio, gusto del rischio e senso del limite.”

Scrive Zedda, parlando del lavoro musicologico da lui svolto alla Fondazione Rossini di Pesaro come componente del Comitato di Reazione incaricato di avviare l’immane progetto di pubblicazione in edizione critica di tutte le opere di Gioachino Rossini… “L’approfondimento ermeneutico iniziato a Milano partecipando all’avventura dei Cadetti della Scala e proseguito a Martina Franca dirigendo la prima esecuzione moderna dell’Adelaide di Borgogna e la prima integrale della Semiramide, ha molto giovato, nella fase di decrittazione dei manoscritti originali propedeutica alla stesura di irreprensibili partiture d’orchestra e dei relativi apparati critici, a ritrovare lo spirito delle origini.

L’esperienza pratica del musicista militante unita a quella teorica del musicologo ha consentito di ridisegnare una prassi esecutiva fededegna, capace di discernere i dati fondanti di una tradizione storicista da conservare e insieme di aprirsi agli apporti della successiva esperienza esecutiva.”

Quando Mariotti lo volle accanto nella progettazione e conduzione del Rossini Opera Festival, fu decisa la linea strategica da imprimere alla nuova manifestazione “convenendo che la manifestazione dovesse mirare all’eccellenza, puntando sulla qualità; che la programmazione venisse indirizzata principalmente sulle opere di genere serio del catalogo rossiniano, sconosciute e inconoscibili perché mai pubblicate in partitura; che la nascitura istituzione avrebbe adottato l’inedita formula di festival musicologico, promovendo spettacoli che accomunassero la verifica della ricerca teorica alla pratica della sperimentazione teatrale, attraverso l’organica collaborazione con la Fondazione Rossini”.

Rossini, eleggendo per il suo teatro il codice del virtuosismo belcantistico, condotto a uno sviluppo estremo e non migliorabile, ha incentrato sulla prestazione dei suoi interpreti vocali il carico principale della trasmissione del messaggio artistico. Nessuna eccelsa direzione d’orchestra, nessuna mirabolante messa in scena, nessuna prestigiosa compagine orchestrale e corale potrebbe assicurare il successo a un capolavoro rossiniano quando sul palcoscenico si avvicendassero cantanti inadatti a rispettare la specificità belcantistica.

Senza la capacità di trasfondere nelle figurazioni anodine di quel canto spericolato i colori e i guizzi generati da una tecnica di illimitate ricchezza e fantasia, nessuna voce, fosse pure la più bella al mondo, potrebbe arrivare a trasformare quei disegni gelidi e convenzionali in emozioni palpitanti, in gesti teatrali cogenti. Da qui la convinzione che il Festival pesarese dovesse configurarsi come festival vocale per eccellenza, e il conseguente obbligo di puntare su compagnie irreprensibili, non soltanto soppesando le qualità del singolo artista, bensì curando il difficile equilibrio fra le diverse voci e la loro pertinenza con la gestualità suggerita dalla lucida scrittura rossiniana. In quegli anni andava di gran moda la restaurazione storicamente documentata di prassi esecutive antiche per riportare alla luce opere dimenticate, moda alimentata anche dall’interessato mercato discografico, e non mancavano vivaci assertori dell’opportunità di creare caste di specialisti che riportassero in auge l’uso degli acuti in falsettone per i tenori, o il doppio registro per i contralti e i bassibaritoni, per non dire di altre bizzarrie, tipo la pratica nevrotica dell’agilità aspirata o la ricerca di suoni fissi o a soffietto. Un discorso affine riguardava anche l’uso di strumenti d’epoca: una importante casa discografica si offrì di finanziare il Festival, registrando tutti gli spettacoli, a condizione di impiegare come orchestra un noto complesso di strumenti antichi. Non fu facile rifiutare un’offerta che avrebbero facilitato l’avvio della manifestazione, risolvendo molti problemi economici e organizzativi, ma la frequentazione degli autografi rossiniani aveva netta mente delineato l’immagine di un compositore ben più avanti del suo tempo, aperto a un futuro non immaginabile, non certo nostalgico del passato. La scrittura strumentale, di straordinarie brillantezza e rilevanza tecnica, prefigurava strumenti ancora da inventare piuttosto che la regressione a quelli che, stando alle recensioni dei suoi spettacoli, tenevano dietro con fatica alle indiavolate strette dei suoi pezzi concertati. La collaborazione con gli studiosi della Fondazione Rossini, curatori delle partiture che il Festival andava rappresentando secondo cadenze stabilite di comune accordo, ha determinato una tipologia di concertazione dello spettacolo inedita e feconda, riassumibile nel binomio ricerca e sperimentazione. Durante le prove musicali, i curatori verificano la congruità delle scelte effettuate nella fase di ricerca e preparazione della partitura, nello stesso tempo vigilando che il rigore scientifico che ha orientato il loro lavoro non venisse attenuato dalle scelte del direttore d’orchestra, del regista e dei cantanti.

Il repertorio lirico degli anni Ottanta era ancora sostanzialmente circoscritto a quello in auge nella prima metà del secolo: lo tsunami Callas aveva appena smosso le coscienze degli organizzatori musicali e scalfito le consuetudini, e quando veniva programmata un’opera belcantistica si ricorreva pervicacemente agli stessi cantanti scritturati per Verdi e Puccini, introducendo bizzarri aggiustamenti semplificatori, oltre a tagli e contaminazioni di tale insensatezza da stravolgere irrimediabilmente il senso del messaggio artistico. Le scuole di canto italiane, affidate per lo più a cantanti fuori servizio, ignoravano perfino l’esistenza di questo repertorio: interpellati sul significato del termine belcanto, molti Maestri di canto avrebbero risposto candidamente trattarsi di un sinonimo di canto bello, interpretato da una bella voce, come quelle di Pavarotti, di Mirella Freni, di Giulietta Simionato. Rarissime erano le esecuzioni stilisticamente appropriate di opere belcantistiche, quasi tutte confidate alla documentazione discografica di operazioni promosse da direttori e cantanti fuori dal giro. Nel tracciare la programmazione dei primi anni, non fu facile rispettare i criteri artistici auspicati: pochi vocalisti erano in grado di rispondere alle richieste del belcantismo rossiniano, e fra questi rarissimi erano gli italiani. Di fatto, i cantanti attivi nelle prime stagioni del Rossini Opera Festival provennero in gran parte dall’area anglosassone, dove la mai accantonata frequentazione di autori come Händel e Purcell obbligava gli interpreti a coltivare, almeno in certa misura, il canto d’agilità e di garbo dei virtuosi barocchi. Nonostante la crescita esponenziale del consenso, i responsabili della programmazione continuarono a interrogarsi sulla perfettibilità di scelte che arrivassero a dipanare l’inattingibile traguardo del lascito rossiniano, di primo acchito edonisticamente appagante, ma presto reso inquietante dall’inconciliabile distanza fra l’apparente semplicità del discorso in atto e l’abissale complessità dell’assunto poetico sottaciuto. Nonostante gli interpreti si dimostrassero all’altezza della loro reputazione e il pubblico li osannasse adeguatamente, sorse il dubbio che il loro belcantismo gladiatorio e autoreferenziale, anche se superbamente condotto, non sarebbe bastato a svelare il fascino di un linguaggio idealizzato e immateriale, leggero come un’ingannevole promessa di felicità, pregnante come l’ebbrezza della poesia. Brusche impennate, sottolineature eccessive, ostentazioni di acrobatismo; fiati artatamente modulati, respiri rumorosamente singhiozzati, cadenze artificiosamente elaborate; enfatiche posture, petti gonfiati, gestualità retorica mai avrebbero potuto cogliere sino in fondo la semplicità e l’eleganza di un discorso teatrale raffinato e limpidamente tracciato. Prese a farsi strada il convincimento che tutto quello che richiamava l’effetto esibito e conduceva a un consenso plateale non avrebbe dovuto far parte del bagaglio professionale dell’ideale interprete rossiniano.

Si sarebbe desiderato che il belcantismo di Rossini arrivasse a cancellare l’artificiosità d’origine per ritrovare l’espressione naturale dei linguaggi compiuti. Ma dove trovare cantanti disposti a sperimentare una linea interpretativa che presuppone il superamento di un traguardo già di per sé impervio? Quale scuola avrebbe potuto indirizzarli a quella chimera? Quale esperienza orientarli a catturarla? Fu allora che nacque l’idea di creare in seno al Festival un’Accademia che imprendesse il compito di plasmare interpreti capaci di trasformare, attraverso l’incomparabile lezione rossiniana, la manna celeste del belcantismo in pane quotidiano, per affrontare una fenomenologia lontana da quelle praticate nella contemporaneità.

L’Accademia Rossiniana si rivolge a cantanti, direttori d’orchestra, musicologi, operatori culturali, appassionati d’ogni sorta per diffondere il verbo rossiniano secondo i criteri applicati dai responsabili del Rossini Opera Festival e dagli studiosi della Fondazione Rossini negli spettacoli pesaresi, contribuendo a diffondere, con lo spirito aperto dei ricercatori, l’immagine che del rossinismo hanno metabolizzato, lungi dalla pretesa che il loro credo debba diventare la sola fede praticabile.

Questo laico indirizzo viene coltivato anche nelle lezioni teoriche, che affiancano quelle musicali, indirizzate a illuminare l’opera e la personalità del grande Pesarese, ma anche ad aprire ai giovani una prospettiva culturale a tutto campo, di norma trascurata nella formazione accademica di un cantante. I registi presenti al Festival spiegano ai discepoli dell’Accademia quanto sia indispensabile acquisire una tecnica di recitazione dove la parola, in qualunque idioma pronunciata, suoni percepibile, al fine di liberarne il potenziale espressivo, e come la gestualità debba adeguarsi a ogni esigenza stilistica, realistica e no, senza rifiutare richieste inconsuete destinate a complicare ulteriormente la difficoltà esecutiva di passaggi vocali impervi; i musicologi invitati introducono il tema essenziale della filologia musicale applicata, chiarendo il senso delle edizioni critiche, strumento di lavoro imperdibile per recuperare prassi esecutive interrotte da secoli, e fomentando l’interesse per la ricerca dell’autenticità e del rispetto rigoroso di testo, forme, strutture. In quest’ottica acquistano importanza le prescrizioni interpretative; le tradizioni vincolanti, quali il ricorso a fioriture, cadenze e variazioni, od opportune, quali trasposizioni, sostituzioni, accomodi, puntature, acuti, corone. Noti professionisti vengono a spiegare l’importanza di conoscere e controllare gli organi impegnati nella riproduzione del suono e a sottolineare i vantaggi di un’educazione fisica che favorisca la respirazione e armonizzi il movimento, senza dimenticare l’attenzione a un’alimentazione adeguata agli sforzi richiesti dalla professione. Una miriade di altri docenti guida i frequentatori dei corsi a sviluppare una propria autonoma coscienza in discipline che incidono fortemente sulla prestazione del teatrante, quali il trucco, l’illuministica, il costume; nozioni che l’artista deve saper assumere e applicare per aggiungere tratto personale alla definizione dei personaggi da plasmare.

Il Rossini Opera Festival trae vantaggio dall’Accademia, giacché le nuove leve emergenti propiziano il ricambio delle sue compagini artistiche, sostituendo gradualmente gli specialisti con vocalisti capaci di superare le difficoltà del virtuosismo acrobatico senza necessariamente iscriversi fra i frequentatori esclusivi del repertorio rossiniano.

All’Accademia non si insegna a cantare, giacché si presume che chi concorre alla selezione d’ammissione sia in possesso di una tecnica vocale di livello professionale. Si analizzano e si perfezionano i risultati di questa tecnica e si educa a indirizzare il controllo della voce alla configurazione di una data immagine da accompagnare alla parola, affinché le anodine figure del simbolismo asemantico acquistino preciso significato espressivo. Si incita ad applicare un costante fervore di fantasia stimolando l’immaginazione, cancellando ogni traccia di passività e pigrizia, sostituendo una gamma infinita di colori alla monotonia del grigio, opponendo la pulsione vitale della gioia al bolso arrancare della routine.

Esemplifico la specificità del discorso rossiniano confrontandolo con quello di altri giganti della letteratura melodrammatica nell’affrontare uno stesso tema esistenziale incentrato sull’amore.

Filippo II, insonne nella superba reggia innalzata per attestare il trionfo ora apparsagli avello sepolcrale, riflette sulla vacuità di un’esistenza dove l’ambizione del potere ha oscurato la voce del cuore: “Ella giammai m’amò! No, amor per me non ha.”

G. Verdi, Don Carlos, inizio del canto dell’aria di Filippo II “Ella giammai mi amò”.

Verdi affida al doloroso, intimo intervallo di seconda minore, il più piccolo della morfologia musicale, l’ammissione di un cuore inaridito e, nello slancio improvviso dell’intervallo di sesta ascendente, in corrispondenza della parola amor, che subito si spegne nella discesa per gradi congiunti, scolpisce la frustrazione che ne discende. I fremiti dell’orchestra accentuano la tristezza del dramma.

Un analogo scatto ascendente apre l’abissale poema dedicato all’amore terreno, il Tristano e Isotta di Riccardo Wagner evocando, come nell’esempio precedente, lo slancio di una passione amorosa che subito ripiega, per gradi congiunti, nello sconforto della sua inattingibilità.

Wagner, Tristan und Isolde, prime battute del Preludio Atto I.

Come in Verdi, l’orchestra espande in struggenti armonie l’implorazione dei violoncelli.

Cenerentola,  fronte al trono che premia la bontà, sospende la felicità per rivivere, come Filippo, il dramma della mancanza d’amore: “Nacqui all’affanno, e al pianto. Soffrì tacendo il core.”

Rossini, Cenerentola, inizio del canto del Rondò finale di Cenerentola, atto II.

Anche Rossini ricorre alla semplicità di poche note in moto congiunto ruotanti nell’intervallo di seconda per raccontare la pena di Cenerentola; anch’egli sceglie lo slancio di intervalli ascendenti seguiti dalla subitanea discesa al registro grave per accentuare la disperazione.

Egli però affida esclusivamente al canto il compito di suscitare l’emozione: l’orchestra si limita a riempire le pause con accordi di soli archi che marcano il basilare percorso armonico di tonica e dominante. Si osserverà, però, che alla fine di ogni frammento melodico, Rossini aggiunge al canto una breve figurazione di genere ornamentale. Tecnicamente parlando si tratta di una fioritura, un accorgimento che il compositore introduce per impreziosire un dettaglio della frase. Per Rossini, quell’appendice asemantica non ricopre la secondaria funzione di abbellimento accessorio: diviene elemento precipuo del linguaggio, fonte primaria d’espressione, vero e proprio gesto teatrale necessario alla definizione del significato espressivo.

Da come l’interprete saprà trasformare la fioritura che accompagna la parola pianto in un singhiozzo di bambina sconsolata; dalla carica di sconforto che saprà immettere all’astratta vocalizzazione che conclude la frase “soffrì tacendo il core” dipenderà il grado di coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore, attestando nel contempo la congruità dell’interprete ad assolvere il compito di trasformare in espressione cogente la sostanza artificiosa del belcantismo rossiniano.

Vivendo la vita del festival, partecipando alle prove degli spettacoli, ascoltando i celebrati colleghi che danno vita ai personaggi delle opere in cantiere, chiedendo loro consigli e suggerimenti, seguendo il loro progredire, gli allievi dell’Accademia introitano nozioni che completano gli argomenti trattati nelle lezioni dei corsi: aspetti dell’etica rossiniana non deducibili dalla notazione musicale e non risolvibili con l’adeguata risposta alla singola situazione espressiva. In un contesto lato si avverte che il canto rossiniano va collocato in ambiti estetici scevri del gesto violento, del grido scomposto, della sottolineatura scontata, dell’eccesso precipitoso, della passionalità esternata. Un canto nobile, misurato, aristocratico, elegante e leggero anche quando suscita tempeste d’amore e di odio.

Gli sono congeniali i toni sommessi, le sonorità smorzate, il fervore del legato, la tensione dei lunghi respiri, il brillo d’un’agilità luminosa e sgranata con precisione assoluta, il virtuosismo di passi acrobatici finalizzati a scolpire emozioni profonde, l’intelligente razionalità di un discorso indiretto, riferito a immagini metaforiche e simboliche.

L’estetica rossiniana poggia su due componenti principali del discorso musicale e drammaturgico: l’una di segno edonistico, volta a rendere piacevole e divertente l’ascolto; l’altra, di alta spiritualità, tesa a idealizzare sentimenti e azioni allontanandoli dalla realtà quotidiana per situarli in un altrove immaginario e caricarli di significati che trascendano la verità rappresentata.

Il primo filone, di natura apollinea, si concreta con la scelta di una comunicazione linguistica di tale semplicità da consentire immediatezza e facilità d’ascolto. L’orchestra presenta peculiarità che sfumano il carattere nazionale dei suoi melodrammi e la inscrivono nel libro d’oro della tradizione europea. È la pregnanza della ritmica che rende elettrizzante l’ascolto della sua musica: una scansione che non si limita a ordinare l’alternanza dei tempi forti e deboli all’interno della battuta, non si preoccupa di regolare il tactus per facilitare l’insieme strumentale e vocale, non disciplina il procedere del discorso costringendolo a un passo uniforme e ripetitivo.

Il ritmo rossiniano è l’elemento dionisiaco che infiamma ogni cellula del tessuto musicale, venendosi a contrapporre alla fredda astrazione del canto belcantistico con una energetica pulsione che trascina e travolge ogni rigidità. Per tale ragione deve essere trattato in modo libero e creativo, estemporaneo e istintivo, onde eludere il rischio di costringere lo slancio rossiniano a un infeconda e monotona piattezza. Tutto questo deve conoscere l’interprete rossiniano prima ancora di accingersi a disegnare un personaggio, a dar vita a una storia triste o giocosa, a riempire di senso e di meraviglia un canto apparentemente articolato sulle stesse meccaniche figurazioni strumentali che si incontrano in ogni sua opera; tutto questo viene ad apprendere il giovane discepolo dell’Accademia pesarese, aggiungendolo all’esperienza diretta dell’esercitazione quotidiana, patrimonio che lo arricchirà per la vita, qualunque svolta compia la sua carriera, patrimonio che solo può acquisire nel luogo che di Rossini e del suo mistero è impregnato sino alle viscere.

Dall’esperienza pesarese ho tratto la convinzione che ogni teatro lirico che voglia allargare il repertorio a una produzione melodrammatica che spazia dal classicismo arcaico al barocco, dall’edonismo lezioso settecentesco al romanticismo, dal verismo gesticolante all’espressionismo, dall’astrattismo atonale all’ibrido postmoderno dovrebbe poter contare su un centro di studio e di formazione che raduni giovani disposti a dotarsi di una formazione accademica interdisciplinare e li fornisca degli strumenti idonei ad affrontare con proprietà esigenze stilistiche tanto diversificate. Il Centro auspicato propizierebbe anche quella ricerca sperimentale propedeutica a identificare la progettazione di una organica politica culturale, basata su scelte di lungo respiro e sottratta alla casualità del singolo evento, che contribuirebbe a dare a un’istituzione lirica il sigillo di una riconoscibile identità, sempre più difficile da conseguire oggi che i grandi teatri si sono moltiplicati nel mondo.

I giovani partecipanti ai corsi didattici del Centro potrebbero costituire un nucleo stabile di artisti, da affiancare a quelli scritturati di volta in volta, estranei allo star system e idonei ad accrescere la potenzialità produttiva e la sfiziosità delle proposte, aggiungendo una tipologia di spettacoli dal costo contenuto, spazianti dalla musica rinascimentale alla musica contemporanea, che difficilmente potrebbero trovare pertinente collocazione nella programmazione principale del teatro.

Un teatro che potesse contare stabilmente su un gruppo di artisti qualificati e coesi, come fu, ad esempio il leggendario manipolo dei Cadetti della Scala operante negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, potrebbe favorire il superamento della rigida contrapposizione imperante fra teatro di spettacolo e teatro di repertorio, proponendo organismi distinti da quelli riscontrabili in tanti enti lirici, dove un sistema ingessato e obsoleto mostra da tempo i prodromi della crisi oggi drammaticamente esplosa. L’introduzione di discipline integrative a quelle musicali, indispensabili per raggiungere la professionalità richiesta dall’eclettismo auspicato, offrirebbe poi al teatro l’occasione di intrecciare una rete di collaborazioni permanenti con personalità della cultura cittadina, critici, storici, letterati, architetti, pittori, compositori, opinionisti, intellettuali d’ogni genere, ristabilendo quel rapporto fra teatro e società civile che un tempo aveva reso il tempio lirico luogo privilegiato di incontri civili e politici e sede di eventi capitali.

Nelle interviste che accompagnarono la mia nomina a Direttore artistico del Teatro alla Scala non mancai di sottolineare che il principale obbiettivo che mi proponevo, condiviso anche dal Sovrintendente Carlo Fontana e dal Direttore Musicale Riccardo Muti, sarebbe stato proprio quello di dotare il teatro milanese di un sofisticato centro di studio e sperimentazione, fucina di una schiera di giovani talenti da impiegare per aumentare la produttività a costi sostenibili, dando nel contempo un forte indirizzo culturale con l’invitare il fior fiore dell’intellighenzia cittadina a guidarne le iniziative.

La mia concezione della direzione artistica di un grande teatro lirico prevedeva di spendere la gran parte del tempo non negli uffici della segreteria artistica, ma nelle sale di prova e di spettacolo, seguendo e controllando giorno dopo giorno il progredire della preparazione artistica, attento a cogliere il minimo segnale che potesse guidare a interventi migliorativi o a fiutare una latente situazione di pericolo, da eliminare prima che si manifestasse apertamente. In una serie di vivacissimi incontri con un Giorgio Strehler entusiasmato avevo concordato un largo programma di spettacoli mozartiani e goldoniani, da tenersi al Piccolo Teatro con la sua regia e i giovani della progettata Accademia scaligera, sperimentando una formula operativa a mezza strada fra il teatro lirico di repertorio e il teatro di prosa, che prevedeva un numero inconsueto di rappresentazioni da destinare a un pubblico non necessariamente melomane.

Condizione preliminare perché tutto questo si realizzasse era ovviamente la possibilità di contare su uno spazio multiuso, esterno al teatro, dove ospitare i corsi accademici, le prove e gli spettacoli lirici. Anche su questo il Sovrintendente Fontana, apertissimo alle novità, fu rassicurante: il problema sarebbe stato affrontato contestualmente alla messa in cantiere delle opere di trasformazione del palcoscenico, già approvate, che avrebbero cambiato radicalmente il sistema di produzione degli spettacoli. Tutto sembrava avviato nel modo migliore, quando l’imprevedibile venne a scompaginare drammaticamente le carte. La mia nomina a direttore artistico avvenne il 30 marzo 1992; pochi giorni prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa, accusato di malversazione a danno del Pio Albergo Trivulzio, aveva dato avvio a Tangentopoli, la stagione degli scandali di corruzione che ha destabilizzato la prima Repubblica e sconvolto la Milano socialista. Ogni iniziativa rimase paralizzata, ogni decisione importante rimandata. L’Accademia scaligera stentò a concretarsi per l’irreperibilità della sede promessa; progetti importanti avviati con Karlheinz Stockhausen, Bob Wilson, Balthus, Giorgio Strehler, Claudio Abbado, Lorin Maazel vennero accantonati; il rinvio sine die della riforma strutturale del palcoscenico aggiunse nuova delusione.

Irrealizzabili gli obiettivi che avevano motivato il mio incarico, la funzione di direttore artistico aveva perso per me ogni ragion d’essere. La lettera di dimissioni del 13 ottobre 1993 recitava: “Non sono venuto alla Scala per occupare un prestigioso posto vacante, ma per fare alcune cose che credo importanti perché riguardano il futuro, lo sviluppo, il nuovo. […] Il direttore artistico dovrebbe anzitutto assolvere il compito di assicurare al teatro il necessario ricambio di idee e l’opportuno aggiornamento artistico e musicologico. I progetti che intendevo realizzare rappresentano il naturale proseguimento di iniziative che mi hanno visto protagonista lungo tutto il corso dell’esistenza e che avrebbero trovato alla Scala lo sviluppo ideale”.

Questo breve excursus personale nel recente passato valga a risaltare la singolarità dell’istituzione pesarese, ma soprattutto a ribadire quali vantaggi possa trarre una gestione lungimirante e coraggiosa dalla collaborazione con organismi votati alla ricerca di nuove mete. L’Accademia Rossiniana contribuisce sensibilmente al successo del Rossini Opera Festival, assicurandogli un costante ricambio d’ energie e moltiplicando la diffusione della sua immagine nel mondo.

Alberto Zedda

© Zedda-Vázquez