La donna del lago: Sturm und Drang!

La donna del lago, produzione di Damiano Michieletto. ROF 2016

La donna del lago, percorsa da fremiti romantici cari ai filosofi e poeti dello Sturm und Drang e da cupe passioni nobilitate dalla magnanimità della rinuncia, è opera affascinante e misteriosa, fra le più belle di un compositore che non conosce la mediocrità.

Esibisce una straordinaria galleria di affetti, come sempre narrati e vissuti in modo traslato e metaforico. L’opera ribolle d’amore, ma l’incontro amoroso mai si realizza; è pervasa di furia guerriera, ma l’ira nasconde gelosie e rovello d’anime; è cosparsa di languide dolcezze, ma l’erotismo inappagato si veste di lutto. L’amicizia, gli affetti familiari, il panteistico rapporto con la natura celano turbamenti profondi, inquietudini esistenziali; dolore e morte vi compaiono con onirico distacco. Su tutto domina l’incomunicabilità, l’incapacità di capire sé stessi e il prossimo, di decifrare il messaggio dei sentimenti, di dar ordine agli impulsi dei sensi.

Ancora una volta si ripete il miracolo di un’opera che per struttura formale, per la conduzione dei pezzi chiusi, per codice espressivo, per vocabolario semantico, per scelte vocali sembra simile a tante altre di Rossini e che all’ascolto rivela invece un paesaggio dell’anima sconosciuto, portatore di tematiche nuove.

La sua scomparsa dal repertorio è spiegabile soltanto con la generale rimozione imposta al teatro rossiniano dai furori dell’inveramento romantico e dalla scomparsa di interpreti atti a restituirla in modo plausibile. Non è opera facile da intendere neppure per l’uomo d’oggi, che pure ha familiarità con l’ambiguità, l’astrazione, la metafora. L’inestricabile intreccio di passato e futuro che avviluppa l’opera rossiniana rende difficile il compito di tradurne le emozioni, a noi come ai contemporanei passati in poco più di un decennio dalle acclamazioni deliranti all’oblio.

Il testo letterario, ambizioso per i richiami ossianici che oltrepassano le mode walterscottiane, presenta personaggi scarni di manifestazioni emotive e di reazioni concrete. La musica di Rossini li accende di afflato poetico e li espande in dimensioni di forte rilievo.

Rinunciato alla tradizionale sinfonia, una semplice cadenza di otto battute simmetricamente ripetuta due volte introduce nel vivo della narrazione e avverte che anche nell’accingersi a svolte drammaturgiche rivoluzionarie il compositore non rinnega vocaboli e formule del suo bagaglio ideologico. Tre unisoni degli archi e tre accordi del Tutti orchestrale, lentamente scanditi sui gradi canonici della cadenza perfetta, bastano a evocare le risonanze arcane che riempiono il silenzio e l’immobilità della foresta. Il senso panico destato da questi fugaci accenti permeerà l’intero sviluppo dell’opera immergendo costantemente i personaggi nel respiro della natura e conferendo alle loro azioni il distacco sacrale del mito.

Re Giacomo, cui la preoccupazione di difendere il trono insidiato da principi ribelli non impedisce di rincorrere i sogni, finge di perdersi nel bosco inseguendo una cerva. In realtà ha seminato i compagni di caccia per ritrovarsi solo sulle sponde di un lago dove la voce popolare vuole che ogni giorno all’alba compaia una fanciulla di straordinaria bellezza. La scorge, infatti, e ne resta abbagliato. Accesa dai pensieri amorosi rivolti al suo Malcom, Elena si presenta con una canzonetta semplice e cattivante, “Oh mattutini albori!”, lontana dal trionfalismo delle sortite divistiche, ma pervasa da un erotismo elusivo. Senza rivelarle l’identità, Giacomo chiede aiuto per ritrovare la via smarrita. Con disinibita naturalezza Elena non esita a traghettarlo sulla sua barca e a ospitarlo in casa, circondandolo di attenzioni cortesi. Il discorrere è piano e gentile, il comportamento casto e amicale, ma la musica aggiunge all’incontro tal dolce incantamento, tale inquieta tensione che nessuno si sorprende che nel petto di Giacomo sbocci prepotente l’amore. Dagli stemmi che ornano le pareti e le armi Giacomo apprende di essere in una dimora ostile: Elena infatti è la figlia di Duglas, un tempo amato precettore e ora capo delle fazioni ribelli. Dalle sopraggiunte amiche che la festeggiano conosce poi che la giovane è promessa sposa a un aborrito Rodrigo ch’ella non ama, prescelto dal padre per averlo potente alleato nella lotta contro il re. Giacomo deve fuggire, ma l’ansioso languore che la sua presenza ha destato nell’acerba femminilità di Elena gli lascia una speranza. Elena attribuisce il proprio turbamento alla nostalgia per l’amato Malcom lontano e, spinta da un’equivoca ambiguità, esercita inconsciamente una seduzione fatale. Il duetto fra i due giovani che chiude la scena è uno dei più frementi dialoghi amorosi di Rossini, certo il più sensuale, il più carico di passione. Liberato dall’imbarazzo di un confronto diretto col tormento amoroso, giacché l’estasi di Elena si suppone indirizzata a Malcom e non a Giacomo, Rossini allenta il freno del riserbo.

Giunge Malcom, giovane guerriero che, per amore di Elena piuttosto che per fede politica, ha tradito il suo re e disertato le di lui schiere, unendosi ai ribelli per esserle vicino. Nell’Aria di sortita “Mura felici”, intrisa di presagi invano camuffati d’ansia amorosa, racconta la malia che l’ha stregato. La simpatia che suscita il suo fresco entusiasmo avverte oscuramente di un destino non felice. Benché il suo canto promani dalla tradizione dei personaggi androgini legati al rimpianto per il castrato, Malcom appartiene alla cultura del romanticismo. La sua bravura d’interprete dovrà caricare di nostalgia una cabaletta impostata su un tema melodico che potrebbe sconfinare nella banalità. Malcom dispiega una sensibilità non manierata che si sposa a nobile fierezza, e si configura eroe in negativo, destinato a conferire credibilità all’incertezza di Elena e magnanimità alla rinuncia di Giacomo.

Con l’entrata del padre di Elena, Duglas, assistiamo all’usato scontro fra dovere e sentimento, fra il cuore e l’interesse. Elena deve cedere alla ragion di stato: Rodrigo ottiene l’assenso alle nozze, ma comprende che non avrà mai il cuore di Elena, giacché intuisce il legame che la lega a Malcom. Il tenero duettino con Malcom che segue l’uscita di Duglas vibra di commozione, ma stupisce che Elena trovi per il suo amante toni ben diversamente fascinosi da quelli riservati allo sconosciuto viandante straniero, laddove Malcom tempera l’eroicità del travesti con il lirismo sincero dell’ “amoroso”.

L’arrivo di Rodrigo, ultima pedina di questa drammatica partita, dà l’avvio al Finale Primo. La sua durezza, la franca lealtà introducono una nota di concretezza in tanto smarrimento delle coscienze. Con lui ricompare il coro maschile, che già all’inizio dell’opera aveva recato un contributo sostanzioso alla definizione psicologica dell’ambiente silvestre. L’entrata a ondate successive dei clan ribelli, accompagnati da banda, tamburi e bandiere, è colpo di teatro magistrale e conduce a una chiusa d’atto di trascinante irruenza. Una pausa distensiva, nel magma incandescente di questo Finale, è introdotta dal Coro dei Bardi con arpa obbligata, un topos sacrale che il Bellini di Norma terrà presente. II drammatico scontro d’animi, centro focale del gigantesco Finale Primo, viene bruscamente interrotto dal richiamo della battaglia.

Nel secondo atto, Giacomo, ancora sotto le spoglie di Uberto di Snowdon, torna a cercare Elena e le rivela il suo amore, precedentemente esaltato nell’Aria “Oh fiamma soave”, un manifesto di vocalità assoluta, dove vengono tradotte in emozioni le sottigliezze del virtuosismo belcantistico, oltre che una professione di sublime nobiltà, di intensa sincerità. Con questo messaggio Giacomo-Uberto si qualifica prototipo dell’eroe romantico, come Werther generoso nella rinuncia alla felicità per non turbare quella dell’amata, come lui disperato nel desolato allontanarsi da lei. Elena è sconvolta da questa confessione, incredula di aver suscitato la passione conatteggiamenti che il giovane le rammenta fra rimprovero e nostalgia. Ma quando Uberto si accinge a lasciarla, accogliendo le sue suppliche, Elena, confondendo ogni logica, gli chiede smarrita: “Ten vai?”.

Sopraggiunge Rodrigo e l’incontro fra i due, rivali in amore prima ancora che sul campo di battaglia, arroventa l’azione al bagliore della tragedia. Tentando di interrompere il furibondo duello, condotto a suon di Do sovracuti, Elena leva un grido di tale intensità, di tale suprema ispirazione: “Io son la misera, che morte attendo”, che tradisce un coinvolgimento emotivo impossibile da indirizzare a un estraneo, come pretenderebbe che fosse Uberto, o a un nemico della sua felicità, come il detestato Rodrigo. Questo terzetto, culmine dell’opera, è una vetta della drammaturgia musicale d’ogni tempo.

Con Rodrigo cade la prima vittima di una insondabile femminilità che unisce al fascino inebriante un presagio di sventura: come non pensare alla maeterlinckiana Mélisande? La successiva aria di Malcom annuncia la rovina del secondo pretendente, che, nel tentativo di salvarla, va a perdersi in una battaglia senza speranza dove verrà fatto prigioniero insieme a Duglas.

Quando nel Finale dell’opera Elena, accogliendo un suggerimento che Uberto aveva accompagnato con un anello di riconoscimento, si rivolge a un re che crede di non conoscere per ottenere salva la vita del padre e di Malcom, il lieto fine d’obbligo adombra una diversa verità. Duglas, liberato, non ottiene parole di comprensione: il conservatore Rossini non dedica una sola nota a questo padre-padrone e lo fa uscire di scena nel più imbarazzato silenzio. Malcom riceve da Re Giacomo l’attestazione di stima che la buona fede dei suoi comportamenti merita, ma non una parola da Elena, la quale intona per suo conto una cavatina risuonante di una gioia, che allontanatosi Giacomo, rimane difficile comprendere.

Al canto che intona la parola “felicità”, Rossini prescrive una sospensione, una pausa sul tempo forte che dà netta l’impressione di una esitazione. Se ne ricava la sensazione che, nel momento di pronunciare la magica parola che dovrebbe siglare il futuro, Elena avverta che il destino felice si è irrimediabilmente dissolto con l’immagine di Uberto.

Per una coincidenza difficile da ritenere intenzionale, il termine che il libretto assegna al coro, e che Rossini fa risuonare in concomitanza con la parola “felicità” cantata da Elena, è “avversità”. La cabaletta conclusiva registra l’insolita presenza della banda; con il doppio piano sonoro dell’orchestra e della banda Rossini sembra invitarci a cercare una doppia verità: quella pretesa dal lieto fine e quella suggerita da una musica che ha cosparso d’ombre le chiare parole del testo.

Alberto Zedda

    In programma di sala ROF 2016

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