I Quattro pezzi sacri e lo Stabat Mater

Van der Weyden. Descendimento della Croce. Ditaglio

I Quattro pezzi sacri e lo Stabat Mater sono il sorprendente testamento di Giuseppe Verdi e di Gioachino Rossini (la successiva Petite Messe solennelle – come i Pechées de veillesse – non era destinata a pubblica esecuzione). Per accomiatarsi, i due giganti del melodramma, messo da parte il professato scetticismo in tema di religione, ricorrono a soggetti sacri: il vecchio Verdi, stanco e ormai alle soglie della morte, sceglie il Te Deum della liturgia, del quale fornisce una lettura poco trionfalistica e densa di interrogativi, e lo Stabat Mater, l’emotivo testo di Jacopone da Todi immortalato da Pergolesi; l’ancor giovane Rossini, profondamente turbato per il suicidio artistico a cui lo aveva costretto l’affermarsi di tendenze estetiche antitetiche all’ideale perseguito, lo stesso drammatico Stabat Mater che ispirerà Verdi.

L’editore Ricordi, ottenuto da un Verdi esitante il consenso alla pubblicazione e all’esecuzione, ha unito ai grandi affreschi strumentali del Te Deum e dello Stabat due pagine per sole voci a cappella: una enigmatica Ave Maria, su una vulgata trecentesca disinvoltamente attribuita a Dante, e una sequenza di Laudi riecheggiante i celestiali versi che l’Alighieri ha dedicato alla Vergine Maria nel Paradiso della sua Commedia.

Non è da escludere l’ipotesi che Verdi abbia accettato l’inusuale accostamento di pagine vocali strumentate con altre senza accompagnamento proprio avendo presente la lezione dello Stabat rossiniano, dove ai brani sinfonico-vocali vengono intercalati altri di sole voci a cappella.

In queste opere sacre Rossini e Verdi distillano una musica nobile e senza enfasi, concentrando in poche, asciutte pagine di alta drammaticità un messaggio dalla cifra sorprendentemente diversa da quella che la loro opera precedente farebbe presagire.

I Pezzi sacri di Verdi stanno alla fiammeggiante Messa di Requiem come il Falstaff sta alla trilogia romantica, Traviata, Rigoletto, Trovatore: il ribollire di sentimenti estremi, l’evocazione di sublimi vertigini, che nel giovane Verdi trovano accenti di shakespeariana possanza e penetrazione, si asciugano qui in lucida essenzialità, in espressività contenuta e casta, consona al linguaggio della speculazione metafisica più che a quello della fantasia onirica. Un procedere che rimanda a quello delle ultime creazioni bachiane e beethoveniane, dove la musica realizza la suprema e pericolosa ambizione di costringere la solleticazione sensoriale a farsi riflessione razionale.

Lo Stabat Mater di Rossini segue un percorso diametralmente inverso: il compositore riservato e introverso, restio ad abbandonarsi all’emozione del sentimento, timoroso sempre di sconfinare nella banalità dell’ovvio e di umiliare la nobiltà del sentire con l’ostentazione impudica di emozioni incontrollate, al cospetto del sacrificio divino e del dolore della Madre si abbandona a sincerità e passionalità a lui sconosciute, risultandone un canto palpitante di slanci e abbandoni, denso di quell’afflato romantico che aveva rifiutato in teatro a costo del sacrificio amarissimo del silenzio.

Alberto Zedda

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