Edizioni critiche e prassi esecutive

La mia relazione ha il dubbio pregio dell’ovvietà. Perché non sorprenda questa riscoperta dell’acqua calda, voglio precisare che essa intende ribadire ai non addetti ai lavori, dalle rassicuranti sponde del militante, che le edizioni critiche e la filologia in genere di cui tanto si parla in questo convegno non appartengono alla categoria astratta dell’elaborazione metafisica, ma costituiscono un contributo concreto, prezioso e per nulla teorico alla fatica quotidiana del musicista.

Il linguaggio della musica si avvale per la traduzione grafica di un codice di segni ai quali, specie per quanto riguarda le indicazioni d’espressione, si sono attribuiti significati mutuati dalla pratica esecutiva, tramandati attraverso tradizioni non scritte, passate da maestro ad allievo, da interprete a interprete, piuttosto che affidati alla certezza di consacrati testi teorici. Ogni compositore usa il codice in maniera personale, introducendo segni, prescrizioni, caratteristiche grafiche che non si trovano in altri autori e che valgono a meglio definire le proprie esigenze espressive, a precisare ulteriormente luci ed ombre del messaggio.

Nel passaggio dal manoscritto alla stampa questa individualità viene attenuata per rientrare in una koinè linguistica da tutti comprensibile: l’originalità del singolo si stempera in una pratica editoriale che attualizza, universalizzandoli, linguaggi che all’origine hanno connotazioni di rilevante diversità.

Il manoscritto parla così un linguaggio ben più vivo e ricco della sua traduzione a stampa. Le intenzioni dell’autore, i pensieri segreti si possono cogliere in una sottolineatura vigorosa o in un tratto reso incerto dal dubbio; in una cancellatura nervosa o in una paziente limatura di coloriti; nell’insistita precisazione di un modello di articolazione o nella puntigliosa ripetizione di accenti e staccati di diversa natura e significato; nell’imperioso gesto di una grande corona o nel respiro palpitante di una legatura; nel tormento di spunti più volte modificati inseguendo l’ideale o in inconsuete originalità grafiche che chiariscono la linea del melos, precisano all’infinitesimo la pulsione ritmica, la struttura della frase, il periodare della melodia. Queste sfumature scompaiono nella prassi editoriale corrente. Oggigiorno si usano gli stessi segni per partiture di Monteverdi e di Webern: ciò non aiuta a entrare nello spirito del testo, a ritrovarne il confine stilistico, la collocazione ideologica.

Non vivendo la musica come esperienza precipuamente contemporanea, ricorrendo a rivisitazioni storicizzate, si avverte sempre più la necessità di strumenti adeguati a eventi culturali tanto distanti fra loro.

Un melodramma barocco richiede regole e comportamenti diversi da quelli che riguardano un’opera classica, romantica, verista, espressionista: varia il modo di suonare, di cantare, di fraseggiare, di ornare la melodia; variano gestualità e recitazione, allestimento, veste timbrica. Occorrono approfondimenti settoriali che confinano con la specializzazione, l’acquisizione di tecniche particolari, la diversificazione di ruoli: scelte per le quali non basta più la generica lezione di una tradizione tramandata oralmente da una generazione all’altra. In aiuto dell’interprete accorre la filologia che gli predispone testi attenti a recepire, anche sul piano grafico, le caratteristiche di una scrittura recuperata indagando con metodologia scientifica il percorso creativo riflesso nell’autografo. Accanto al testo base, una moderna edizione critica allinea in appendice tutti quei pezzi aggiunti, rifacimenti, adattamenti, ripensamenti, trasposizioni che l’autore o altri per suo conto hanno introdotto nell’opera per adeguarla alle diverse situazioni presentatesi nel corso della sua storia.

L’interprete ha così a disposizione un testo “princeps” e una serie di varianti “autentiche”, cioè introdotte dall’autore e da lui espressamente autorizzate. Su questi testi, così diversi da quelli diffusi da un’editoria musicale basata sulle scelte della tradizione esecutiva, l’interprete potrà impostare il suo lavoro, forte di uno strumento che ai presupposti della filologia accoppia l’argomentata discussione dell’apparato critico.

La revisione critica diventa tanto più necessaria quanto più il manoscritto da cui trae origine presenta approssimazioni, semplificazioni schematiche, prescrizioni sommarie, refusi dovuti all’urgenza dell’ispirazione, alla fretta di scadenze ineludibili, all’incuria del copista.

La ricerca, anche grafica, di un’autenticità testuale il più vicino possibile alle intenzioni dell’autore renderà meno difficile acquisire un fraseggio appropriato, sottratto alla rigidità metrica della notazione mensurale, un discorso originale, una naturalezza espressiva stilisticamente corretta. Le riflessioni dell’apparato critico contribuiranno validamente a quell’aggiornamento culturale senza il quale non è possibile percepire il continuo rinnovarsi di valori interpretativi in perenne trasformazione. Nel commento critico il filologo traccia un quadro dettagliato, collocando l’opera nel contesto del momento storico che l’ha vista nascere, mettendo a fuoco i valori formali e lessicali, fornendo documentate nozioni su prassi esecutive indispensabili per rendere i significati dell’opera d’arte. La filologia diventa così la migliore alleata del musicista: sorprende come possa talora venir sogguardata come scienza astratta, nutrita di riflessioni accademiche da contrapporre alle ragioni del cuore e della fantasia. La diffidenza che circonda il lavoro del filologo nasce dal fatto che troppe volte la figura dello studioso e quella del musicista militante sono disgiunte laddove dovrebbero incarnarsi in persone che abbiano vissuto in qualche modo “dal di dentro” le due esperienze. Capita a volte che la filologia diventi fine a se stessa o, peggio ancora, che la musica venga posta al servizio della filologia e non viceversa.

Ma questo non è colpa dei filologi: nella sua accezione più estesa la filologia potrebbe diventare sinonimo di interpretazione corretta. La restituzione filologica di un testo musicale d’altra epoca comporta riflessioni sulle sue componenti strutturali e linguistiche per riconsiderare tagli, fermate, ritornelli, da capo, ripetizioni, divisioni d’atto.

Le conoscenze filologiche sono determinanti quando si affronti un repertorio che affonda le radici in esperienze lontane, ma una mentalità filologica si impone anche per rendere al meglio opere da sempre in repertorio.

Le edizioni critiche, nate dall’esigenza di tradurre i dati dell’esattezza filologica in un pratico strumento di lavoro, apportano un contributo sostanziale al formarsi di questa mentalità, consentendo il recupero di preziose testimonianze d’epoca, cadenze, variazioni, ornamenti da introdurre nelle opere di ascendenza belcantistica. Il ritorno alla pratica della variazione consente di ravvivare pagine stanche e di maniera, di correggere staticità formali e ripetizioni insistite rivestendole di nuovi attributi espressivi, di ulteriori attrattive. Ne esce rivalutato il concetto di virtuosismo, non più spregiato atletismo, bensì elemento nobile ed essenziale di un linguaggio che ne è substanziato, atteggiamento morale che non coincide necessariamente con il tecnicismo.

Grazie al recupero di queste pratiche aleatorie che consentono di allentare rigidezze e feticismi, si viene formando una mentalità più elastica di buon senso nei confronti di ritocchi, trasposizioni di tonalità, sostituzioni di arie con altre appartenenti alla tradizione autentica.

L’interprete che ha frequentazioni filologiche, anziché irrigidirsi nell’astratto culto di un testo che si è disvelato lecitamente aperto a ulteriori interventi, acquista una disponibilità, una pragmatica capacità di mediare e di accogliere il compromesso intelligente che ne fanno il collaboratore più duttile e attento alle necessità del canto, protagonista indiscusso di tante opere del repertorio melodrammatico. La cultura delle edizioni critiche rivaluta la figura del concertatore che una volta si identificava nello stesso compositore, il cui compito, a monte di quello di dirigere l’orchestra, sta nel definire la cifra interpretativa dell’opera attraverso la scelta del testo e degli adattamenti da predisporre per l’idonea utilizzazione della compagnia a disposizione. Il musicista trae dunque dal lavoro di ricerca che correda ogni buona edizione critica suggerimenti pratici e soluzioni alternative che gli consentono di risolvere più agevolmente i molteplici problemi posti dall’allestimento di opere al di fuori della logica corrente.

L’interprete d’oggi, che non può agevolmente basare la sua preparazione sul manoscritto originale (quand’anche la riproduzione anastatica ne facilitasse l’accostamento, resterebbe la difficoltà di una decodificazione che richiede una preparazione specifica non indifferente), ha bisogno delle edizioni critiche se vuole costruire la sua autonoma visione dell’opera partendo dal suggerimento diretto del compositore.

L’edizione critica non lo lega più d’ogni altra, non lede la sia autonomia, non lo condiziona nelle scelte, non riduce la sua libertà di leggere nei testi messaggi molteplici da tradurre in esecuzioni segnate dal sigillo della personalità.

Gli assicura nondimeno la certezza che fra lui e l’autore non si siano inserite altre voci a turbare un dialogo ideale che deve garantire l’originalità dell’apporto che ogni vero interprete introduce nelle sue letture.

Alberto Zedda

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